Allattiamo? La memoria delle contadine siciliane

Venerdì scorso alle Balate abbiamo partecipato ad un incontro di Allattiamo? davvero arricchente sotto molteplici punti di vista. Nei precedenti incontri avevamo stimolato le coppie a saperne di più sull’allattamento delle proprie madri, e così sono venute fuori usanze legate all’allattamento di origine antichissima ancora attive negli anni 70. Una delle donne presenti ha raccontato, ad esempio, che nelle Madonie ancora quarant’anni fa si usasse praticare ad una donna affetta da agalattia lo stesso rito che descrive Giuseppe Pitrè nelle sue raccolte di Usi e costumi del popolo siciliano, che risale, come sappiamo, alla fine dell’Ottocento. Dal racconto di questa mamma, nasce il desiderio di scrivere questo post.

Il significato della pratica dell’allattamento deriva dalla sua particolare posizione all’interno di un sistema di significati più ampio. Tutto l’insieme di usanze e riti attorno alla cura e all’alimentazione dei neonati, conferma, infatti, che la semantica dell’allattamento al seno è solidamente legata ad una realtà in mutamento. L’intera gamma di tabù relativi all’allattamento al seno può essere utilmente spiegata, pertanto, riferendola a dei fattori esplicativi sociali e culturali che non si possono ridurre a una mera somma di scelte individuali.

Cercare le radici di una svalutazione di fatto della pratica dell’allattamento al seno che ha condotto a percentuali così basse nella nostra regione, ci richiede, per quanto possibile, un atteggiamento di sospensione del giudizio, per poterci calare in realtà così diverse dalle nostre. Si tratta dunque di un lavoro esplorativo volto a ricavare, a partire dall’analisi del testo di Pitrè, (una delle migliori fonti disponibili sulla memoria contadina siciliana) una serie di considerazioni sui valori, sulla strutturazione dei ruoli, sull’istituzione di “narrazioni possibili” (cui fa riferimento l’individuo nella definizione di sé) storicamente e territorialmente definiti dai contesti che li hanno prodotti. Infine, conoscere come vivevano le nostre trisavole l’esperienza della maternità,  permette di cogliere come, oggi tanto quanto ieri, molte istanze delle nuove filosofie bioetiche possano influire nelle riflessioni che concernono l’esperienza della maternità.

Ma passiamo adesso al testo in oggetto tratto da Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, raccolti e descritti da Giuseppe Pitrè (1889)

L’Allattamento.

Ma veniamo all’ allattamento , che è tanta parte degli usi natalizi, e vediamo com’esso comincia e come procede. Per tre giorni il nuovo nato non riceve altro che qualche cucchiaiatina di olio di mandorle dolci o dì giulebbe di cicoria rabarbarato perché si sbarazzi del meconio (mazzaredda)[1]; e se ne sbarazzò, di fatti, e si attaccò al petto della madre e prese felicemente a poppare. Il capezzolo (capicchiu) fu ben rilevato negli ultimi mesi di gravidanza , ed egli apre quanto può la boccuccia per prenderlo (‘ncapicchiari). Se vedeste con che forza succia! e come, dopo succiato, s’addormenta! segno che il latte è buono. Addormentato dovrebbe, secondo le comari[2], essere adagiato bocconi nella sua culla, poggiandosi specialmente sulle ginocchia, per così digerire subito il latte; ma qualche donna si sottrae a questa usanza e lo adagia come le pare. Egli dorme tranquillo, e ne’ suoi lunghi sonni sorride agli angeli (ridi cu l’angileddi) e stando in custodia delle Donne di fuora „,non può esser rilevato senza il loro permesso.

Fino al quarantesimo giorno[3] egli starà tranquillo com’è stato, e come forse proseguirà a stare; ma forse anche muterà un poco, perché appunto da quel giorno comincia la vera vita infantile, e tutto il bene e tutto il male che si ha prima non sarà mai duraturo. Se il neonato fu insonne o  irrequieto, è ragione a sperare che si cheterà e dormirà lungamente tranquillo; e così forse, al contrario, se era tranquillo e non si sentiva né molto né poco. Dove questo mutamento non avvenga ai quaranta giorni, bisognerà attenderlo ai novanta.

Il vomito frequente non è male che impensierisce la madre: è soltanto una noia, un fastidio e nient’altro.
Nei vomiti frequenti i bambini rigettano solo il cattivo ritenendo il buon latte : Jettanu In tintu e si tennu In bonu. Ed anche quando lo rigettino in apparenza tutto, v’è quello che rimane nello stomaco, e si sa che Lu stomacu sempri arrobba.

L’esperienza cotidiana c’insegna che una forte emozione, un vivo dispiacere della donna che allatta può riuscir dannoso al lattante. Ma la esperienza delle comari insegna di più: che il danno è maggiore al maschio che alla femmina. Rimedio: non dar subito la poppa al bambino, e dovendo assolutamente farlo, schizzarne un fìl di latte, ed ungere d’olio comune le gengive ed il palato duro di esso (Palermo) ; rimedio- però inutile se il latte materno sia di cuore non di spalla. Imperciocché è da sapere che quando il latte affluisce dalle regioni posteriori, ” di sotto le ascelle „, è latte di spalla, né, per agitazioni o dispiaceri della madre, riuscirà mai ad alterarsi; e quando affluisce dalla regione precordiale, è latte di cuore, latte che sazia, soddisfa il bambino tanto che dal piacere egli suda succiando; ma, appunto perché di cuore, soggetto a profonde alterazioni e causa di danni alla madre ed al figlio.

Nell’Istante che questo è attaccato alla poppa, la madre o chi per lei si guarda dal bere un liquido qualunque per timore che quel liquido vada a mescolarsi col latte e guasti lo stomacuccio del bambino; e se vuol bere, la gli toglie di bocca il capezzolo e, bevuto, glielo rimette subito.

Accade che una bambina non prosperi col latte materno. Le ragioni di ciò potrebbero essere molte; ma tra tutte nessuna è più convincente di questa: che il latte di una donna che s’ è sgravata d’ una bambina non ha le buone qualità del latte di una donna che s’ è sgravata d’ un bambino. E allora il rimedio è presto trovato : dare a quella bambina latte di madre d’ un maschio […] (Palermo).

Mezzi buoni ad accrescere la scarsa secrezione del latte sono lattuga cotta, endivia con la pasta, sesamo nel pane, pesce cotto, pasta incaciata, con molta dell’ acqua nella quale fu bollita (Palermo) , pane di semolino inzuppato, appena uscito di forno, in vino, pasta con ricotta e con cipolla soffritta e tavolta acqua mista a lievito (Mazzara e Raffadali), ortica bollita (Nicosia), e non so che altri cibi; ma quando il latte ha da venir meno, verrà meno con tutte le lattughe e le cipolle di questo mondo. E se vien meno, bisogna fare il possibile per riaverlo abbondante e proseguir l’allattamento.- Nella contea di Modica qualche popolana alla quale il latte sia sparito va in casa di sette donne, che tutte abbiano il nome di Grazia, fa regalarsi da ciascuna un pugno di farina , ne forma una focaccia , che sia però senza sale, e la mangia caldissima appena sfornata (a bucca di furnti). Il latte è subito tornato: e molte ci giurano[4]. Se il latte sparito (latti spirutu) non riappare, ecco che cosa potrà farsi. La donna medesima vada per 13 case diverse, e chieda in ciascuna un tozzo di pane; vada in una 4°  , e chieda una pentola; in una 5° , un treppiede; in una 6° un po’ d’olio; in una 7°  , un po’ d’ acqua; in una 8° delle legna; in una 9°, un zolfanello. Appiccato il fuoco, cotti i 3 tozzi di pane, ella li mangi per intiero, e si ponga bocconi[5] sul letto. La Madonna della Grazia in premio di tanta umiltà le sarà larga di dolcissimo latte (Milazzo) ‘. Altre donne , invece , usano di tendere un laccio da una parete all’altra della stanza , e dopo che le mosche[6] vi han deposti i loro escrementi , lo bagnano in un bicchiere di vin caldo, e danno questo a bere, senza che ella ne sappia nulla , alla donna che vuol riavere il latte. Le mosche non son tutto l’anno : e però questo espediente non può mettersi in opera altro che in estate. Aggiungi quest’altro rimedio: una comare della nutrice travagliata da agalassia le reca, a insaputa di lei, due panini e un po’ di vino: la donna mangia i panini e beve il vino, ed il latte verrà subito (Nicosia). L’applicazione d’un cavallo marino (cavadduzzu marinu) vivo su’ capezzoli delle mammelle può anche supplire a tutti questi espedienti (Solanto).

Se poi, al contrario, il latte è abbondante e sopravviene l’ingorgo parziale de’ condotti galottofori, comunemente inteso: pelo delle mammelle (pilu di minna, pilu a la minna), bisogna ricorrere a questi mezzi : applicare sulla mammella rigonfia una focaccia (scacciuni) calda, o delle foglie di cavoli arrostite (Alcamo); bere dell’acqua nella quale -senza saperne essa nulla – abbia bevuto un. gatto (Modica * e Borgetto); munger la mammella innanzi il fuoco (Pai), o all’angolo d’una parete, dar latte al bambino con la mammella rialzata (Misilmeri), e rivolgerlo dalla parte opposta a quella abituale della madre, il che si dice: dar latte a traverso (degghj } u latti a tr aver su) (Nicosia). E siccome vi son donne molto disposte a siffatti ingorghi, ad evitar frequenti e dolorose, recidive, usano, come cure preservative, bere tre sorsi d’acqua nella quale sia stato sciolto del lievito mentre si manipola il pane (Misilmeri), o appendersi al collo, per tre giorni di seguito, la curuna d”u gioppu o cacioppu (Montevago), corona composta di pallottoline da rosario in numero dispari di lacrime (coccia) di Giobbe.

Questa breve ma dolorosa malattia fu introdotta da S. Giuseppe per una specie di dispetto a una donna che, pettinandosi, non volle smettere e dargli un tozzo di pane. Come andasse il fatto, potrà vedersi nella prossima mia raccolta di fiabe e leggende popolari siciliane inedite[7].

Ma il latte non è mai solo: che fin da’ primi giorni della sua nascita il bambinello comincia a ricevere dapprima pangrattato con olio, buono a mettergli sonno, poi pan masticato dalla mamma ed imboccato, o pastina cotta, e poi, passati i primi quattro, sei mesi, tutto quello che si mangia in casa: ragione medica per ispiegare i tanti catarri intestinali a’ quali van soggetti i nostri bambini, ed il contingente di morti che questa malattia dà allo stato civile.

Il bambino va del corpo ora giallo, ora verde, ora bianco; e se la donna ha avuto la fortuna di mangiare un uovo, sospetta e crede che il giallo della cacchina di lui sia il giallo dell’ uovo passato indigesto (tal’ e quali); se la cacchina è verdastra, lo è per, la verdura che ella mangiò quindici, venti giorni fa, verdura non istata peranco digerita; e se biancastra per latte rappreso, lo è per il cacio mangiato da lei non si sa in qual giorno della settimana. Tutte le comari spiegano ogni cosa chiaramente, senza voler neanche sospettare che principal causa siano le pappe, le paste, le frutta che s’imboccano alla povera creaturina[8].


[1] Le opinioni sul colostro variano nel tempo e nelle culture. Spesso era ritenuto in molte società, sia di caccia e raccolta come gli !Kung, che rurali come nella Sicilia dell’Ottocento, un aperitivo dannoso per il bambino, tossico perché era secreto subito dopo il parto, evento pericoloso per eccellenza in un contesto in cui i tassi di mortalità perinatale erano altissimi. Di fatto sappiamo che invece la mortalità infantile declina in quelle società che non hanno tabù sul colostro.

[2] Le comari sono quello stuolo di donne che si occupano di puerpera e neonato, oggi sostituite dalle mamme alla pari, i gruppi di auto-aiuto per l’allattamento al seno, le doule. Ci teniamo a ricordare che la posizione prona durante il sonno è ritenuta oggi uno dei fattori principali di rischio SIDS e che è preferibile che i lattanti nei primi mesi dormano in posizione supina.

[3] In molte parti del mondo il neonato e la partoriente sono creature impure e contaminanti da mettere in ‘quarantena’ presso luoghi appositi, sia per ragioni cautelari ma soprattutto perché intorno alla donna che ha partorito si svolgono intense attività sovrannaturali e i neonati sono delle facili prede per gli spiriti maligni. Questa clausura trova giustificazione anche nel fatto che la nascita è una ‘morte per l’altro mondo’ e i primi quaranta giorni dal parto sono una sorta di rinascita per madre e bambino. Le uniche persone che possono stare a contatto di madre e neonato sono le comari, “le madrine”, “le donne di fuora”.

[4] Nel trattato “medicina popolare siciliana”, lo Stesso riferisce: per la scarsezza di latte (agalassia) applicare dietro le spalle della nutrice uno scacciuni (specie di focaccia) caldo caldo (noto); segnare le spalle stesse con le croci(Palermo). Un’amica della donna che non ha latte o l’ha scarso prenda da tre donne chiamate Maria, della farina, le prepari con essa un piatto di tagghiarini e all’insaputa glieli faccia mangiare. Il latte verrà (Alcamo). Il latte poi si fa crescere coi seguenti cibi: 1vermicelli o altra pasta bollita e poi caciata, con molta acqua di pasta. 2.lattuga cotta. 3 endivia con pastina. 4molto sesamo sul pane (palermo). 5 finocchio selvatico in minestra( mussomeli.) Bisogna toccare la pietra della Gancia, una pietra che si conserva dentro la sagrestia della chiesa di S.Maria della Grazia, detta Gancia, dei frati osservanti di Palermo. 

[5] Allattare in questa posizione è tutt’ora considerato un buon rimedio per sgorgare dei dotti ostruiti.

[6]Interessante questo rito, mi fa pensare che le mosche come i gatti, in quanto animali ctoni, nella tradizione occidentale furono associati al diavolo, non a caso Belzebù significa il signore delle mosche. Sappiamo dalla storia che paganesimo e sapienza contadina confluirono nel medioevo nel culto del diavolo, nel senso che tutto quello che non era cristiano era anti-cristiano, quindi la saggezza popolare, tramandata di donna in donna, fu vista come stregoneria..

[7] Sempre in “medicina popolare siciliana” sulla Febbre del pelo e altri problemi legati all’allattamento Pitrè riferisce: Pilu di minna (galattoforite) Questa malattia ebbe origine da dispetto di s. Giuseppe verso una donna, la quale standosi a pettinare, non volle scomodarsi a dargli un tozzo di pane. La leggenda racconta:San Giuseppe andava elemosinando e passò presso la casa di una donna che si pettinava. Le disse S.G.:-volete voi farmi la carità?- Non ve la posso fare, perché mi sto pettinando. Intanto il bambino di lei piangeva, ed ella se lo attaccò al petto. S.Giuseppe di strappa un pelo dalla barba e lo lascia cadere sulla mammella della donna, la quale venne tosto presa dal male che viene chiamato: pelo della mammella. San Giuseppe tornò dipoi a chiedere la limosina; e la donna gli rispose: – no, non vi do nulla se non mi guarite del male. S.G. disse allora Pilu di minna, vattìnni di ccà, E ti ni veni’ntra la barba mia. Figghiolu a durmiri, Mamella a ripusari! E alla donna di guarì la mammella(Niss) Ecco i mezzi raccomandati per guarire di questo male: applicare sulla mammella infiammata una focaccia calda o delle foglie arrostite di cavoli. Attaccare un cataplasma caldo d  crusa e aceto, far dei bagnoli di acqua e lattuga. Bere dell’acqua, nella quale, senza sapere la donna nulla, abbia bevuto un gatto. Mungere la mammella innanzi al fuoco oppure all’angolo di una parete. Attaccarsi al petto la bambina di un’altra donna. Dare latte al bambino con la mammella rialzata e rivolgere questo dalla parte opposta a quella abituale della donna, il che si dice Degghj(dari) ’u latti a(di) traversu. Così se il bambino deve attaccarsi alla mammella destra, lo si mette dal lato sinistro e viceversa. Siccome poi vi sono molte donne disposte a siffatti ingorghi infiammatori, ad evitar frequenti e dolorose recidive, si una come preservativo, bere tre sosrsi d’acqua disciolti dentro del lievito mentre si manipola il pane o appendersi al collo, per tre giorni di seguito, la curuna d’’u gioppu composta di pallottoline di rosario in numero dispari di lacrime (còccia) di Giobbe. Al primo infiammarsi delle mammelle si ricorre alla protezione di s.Agata, la cui immagine si piega e attacca alla parte ammalata. 

-Per i CAPEZZOLI CRETTATI (RAGADI) Per impedire che il capezzolo screpolato od ulcerato stia a contatto con le vesti lo si copre con una grossa conchiglia o con un ditale o con una ciambelletta di tela. Lo si unge di succo di vastunaca pistata, dauco pesto o di seme di cotogna sia ridotto in poltiglia sia seccato e ridotto in polvere.

Per fare cessare la lattazione nella fase di spoppamento si una la vincaprivinca, la pervinca e si mettono nel petto 4 o 5 ramoscelli di menta e una chiave di ferro, che sia mascolina.

[8] Qui sta parlando il Pitrè medico, che sa come il sistema digestivo del lattante sia assolutamente immaturo per ricevere altro cibo fuorché il latte materno nei primi sei mesi di vita. La somministrazione di cibo ai bebé, al contrario di quello che si pensa, non è tanto un comportamento naturale quanto piuttosto soggetto alle influenze culturali del momento. Ripercorrendo la storia vediamo come il neonato, nel corso del tempo, sia stato non solo allattato al seno dalla madre biologica per tempi variabili, ma anche dalla balia (il cosiddetto allattamento baliatico), oppure alimentato con latte animale (di capra, mucca, asina) o con miscugli alimentari somministrati con corni perforati o poppatoi rudimentali (che possiamo considerare i precursori degli attuali biberon). In realtà l’allattamento (come ogni altro aspetto della sessualità delle donne), il rapporto col cibo e le credenze mediche appaiono particolarmente soggetti alla manipolazione culturale e nella maggior parte delle culture, anche quelle rurali, già dai primi mesi, se non dai primi giorni, il latte materno viene integrato con pappe di cereali (Africa), acqua di riso (Asia sud-orientale), infusi di erbe (America centrale). Tutt’ora ci sono pediatri che consigliano le tisane di finocchio o camomilla sin dai primi giorni o l’introduzione di frutta omogeneizzata già dalla fine del secondo mese di vita, “perché si è sempre fatto così”. Presso i popoli dediti alla caccia e alla raccolta o in cui le conoscenze agricole sono rudimentali, il bebè viene allattato appena dà segni di volere mangiare. Spesso però, sin dai primi giorni, assaggia anche altri alimenti. Questa iniziazione al cibo degli adulti avviene con una progressione psicologica e simbolica che va dall’alimento più molle al più duro, dal più magro al più grasso, dal più insipido al più saporito. Pappe di miglio, sorgo o manioca e salse dal piatto collettivo vengono somministrate dapprima a dosi omeopatiche. Talvolta la madre si limita a intingere il dito nella pappa e a metterlo in bocca al bambino perché lo assaggi. Le pratiche mediche che impongono una gradualità nell’introduzione dei cibi solidi sembrano quindi molto più vicine alla tradizione culturale che le ha prodotte che alle evidenze scientifiche. Di fatto più sappiamo dell’intero spettro dei comportamenti materni e meno motivi abbiamo per un etnocentrismo moralistico, per distinguere tra popolazioni selvagge e civilizzate, cristiane e non cristiane, ignoranti e acculturate, tecnologiche e rudimentali.

Vedi anche l’ allattamento al seno, un evento biopolitico

ieri le balie 

i minni i sant’Agata

Per approfondire, consulta anche:

il latte materno, a cura di Vanessa Maher, Rosemberg e Sellier,

Istinto materno, Sara Blaffer Hrdy, Sperling e Kopfer

Bebè del Mondo, Beatrice Fontanel, Claire d’Harcourt, L’ippocampo.