La colonizzazione alimentare americana: dalle università al McDonald andata e ritorno

Parole chiave: evoluzione, antropologia, alimentazione, etnocentrismo, specismo, storytelling pubblicitario, sessismo, antispecismo, decrescita felice, ecologismo.

Domenica scorsa tirava un vento minaccioso su Palermo, mentre nel resto d’Italia le alluvioni mietevano qualche vittima fra cose, persone e costruzioni umane. Ululati e raffiche, turbinii di polvere e allarmi di motorini che suonavano, incitavano a barricarsi in casa e concedersi una giornata di puro relax. In realtà per la donna italiana media restare in casa di domenica non è il massimo del relax, perché si tratta di cucinare piatti elaborati e pulire tutto quello che si sporca, approfittando del tempo libero a disposizione per fare qualche faccenda domestica che durante la settimana lavorativa non si ha mai il tempo di finire. Ma per fortuna, almeno in casa nostra, uomini – anche il piccolo quasi treenne –  e donne cooperano alla meno peggio alla gestione della cosa comune.  A riprova di ciò (!),  mentre i maschi sono rimasti a dormire fino alle undici del mattino, io mi sono svegliata presto e di buona lena per preparare, da mamma italiana che stuzzica i palati dei suoi maschietti, il classico pranzo domenicale, a base di lasagne alla bolognese, funghi ripieni, barbabietole in agro, cotoletta alla milanese e patatine fritte. Una cosa da fare vomitare i miei amici vegani e vegetariani ma che ha reso felici i miei carnivori ai quali tento di imporre un regime alimentare che contempla le carni rosse solo una o al massimo due volte al mese.

Siccome l’altra Marika che mi abita, anche mentre cucina, parte sempre per la tangente, e pensa pensa – porca miseria quanto pensa! – maneggiare tutta questa carne cosificata mi ha suscitato questo articolo che state per leggere, qualche latente senso di colpa, qualche curiosità intellettuale e ha fatto entrare in collisione i due orizzonti che animano le mie riflessioni degli ultimi anni.

Il primo, come saprete, è il mio interesse per la pratica e l’esperienza educativa della società occidentale, coadiuvata dai messaggi provenienti dai mezzi d’informazione di massa e dalla famiglia, il secondo è la passione per gli studi filologici e antropologici. In particolare, mentre preparavo il ragout, mi sono posta un doppio ordine di domande.

Le prime erano di ordine più scientifico e direi, accademico:

– Davvero nel processo di ominazione l’introduzione della carne è stato un propulsore evolutivo? E in che misura? Davvero carne e sviluppo cognitivo sono legati in un rapporto di causalità? Potrebbe essere vero il contrario? E se è vero il contrario, cioè che è l’aumento del cervello in maschi e femmine ominidi che ha spinto i maschi protoumani a cacciare gli animali, che cosa ha reso possibile la modifica della percezione che ha portato allo sviluppo delle facoltà intellettive? Se invece è vero – com’è stata dimostrato finora – che è stato il rapporto che ha il cacciatore con la presenza-assenza della preda a rivoluzionare i processi cognitivi, facendo germinare il pensiero simbolico, come si relaziona ciò alla stratificazione sociobiologica in base al sesso?

Le seconde erano di ordine più politico-militante:

– Possono le ricerche, essere finanziate dalle università americane per motivi ideologici, come quello di mantenere lo status quo? In fondo, dimostrare che la carne è stata cruciale per lo sviluppo del cervello fa accettare di buon grado lo specismo, e dimostrare che uomini e donne hanno diverse capacità di orientamento perché la divisione dei compiti di procacciamento del cibo, con il diverso prestigio sociale che ne deriva, era già codificata nel Pleistocene, giustificherebbe il sessismo. Perché ho sempre più il sospetto che la conoscenza e l’informazione scientifica si muovano sul doppio filo di descrivere e riscrivere la realtà adattandola alle richieste che determinate volontà le sottopongono? In ultima istanza, le ricerche scientifiche abbiano la stessa funzione mitopoietica del raccontino di Eva raccoglitrice che dona il frutto raccolto ad Adamo condannandolo alla finitudine mortale, di Caino cacciatore che ha la meglio su Abele raccoglitore, di Romolo e Remo alimentati da latte animale, senza avere bisogno di una madre umana etc etc…?

Insomma, in un turbinio in cui prospettiva diacronica dell’evoluzionismo e sincronica delle scienze delle cominicazioni si sono fuse, confuse e hanno perfuso i gangli della mia lettura del reale,  sotto la spinta di una sensibilità forse ambigua perché sottoposta all’emotività, ho iniziato a condurre una breve ricerca online sul modo in cui l’ordine simbolico perpetui regimi discorsivi dominanti e ci imponga modelli alimentari e comportamentali dannosi e violenti. Alla fine dell’articolo troverete i riferimenti ai siti da cui ho estratto le citazioni testuali che seguono.

Secondo la psicologa Annamaria Manzoni (2006)

“la nostra società è fortemente schizofrenica, sadica e fondamentalmente incline all’alterazione della realtà e alla menzogna dato l’enorme sforzo che le industrie e i media attuano per nascondere ai cittadini stessi la realtà che si cela dietro le produzioni che hanno per oggetto lo sfruttamento sistematico della vita animale. Dal momento che i messaggi suggestivi associano l’alimento all’affetto, quello che avverrà sarà l’instaurarsi, a livello inconscio e profondo, di una pericolosa sovrapposizione e identificazione tra fondamentali relazioni familiari e offerta di cibo animale, operazione facilitata dal fatto che il cibo, per sua stessa natura, riveste incredibili valenze simboliche collegate all’esperienza del latte materno” (Manzoni 2006: 38).

In questo video   di questo spot plasmon anni ottanta trovate una impalcatura ideologica che ha segnato l’infanzia della mia generazione e che attesta come gli effetti di questo martellamento mediatico siano in grado di generare quella dipendenza dal cibo carneo di cui siamo oggetto. E chi non ricorderà il carosello Gringo?

Non è semplice divincolarsi da questo condizionamento, perché coloro che dovrebbero essere gli studiosi di questo fenomeno, gli scienziati, sono in genere essi stessi oggetto dello studio che dovrebbero condurre. Quello che voglio dire è che a livello cognitivo, anche quando i ricercatori operano un’analisi scientifica, sono parallelamente abitati da sistemi simbolici che costituiscono la spinta delle loro esigenze analitiche: con un occhio analizzano equazioni con l’altro misurano crani e reperti fossili, e alla fine stanno raccontando una storiella infarcita di lessico tecnico. L’enfasi data all’importanza della carne per lo sviluppo del cervello umano rientra in un filone di studi che nelle università americane hanno per oggetto il cosiddetto Man the Hunter. Ecco un esempio dei tanti studi in proposito, tratto da un portale di divulgazione scientifica:

“Mangiare carne è sempre stato considerato uno dei fattori che ci ha resi umani, considerando che le proteine apportate con la carne hanno contribuito all’accrescimento del nostro cervello”, sostiene Charles Musiba, professore associato di antropologia presso l’Università Denver del Colorado, che ha partecipato alla scoperta. “Il nostro studio mostra che 1,5 milioni di anni fa gli ominidi non erano carnivori occasionali, non cacciavano per semplice opportunità, ma proprio con lo scopo di procurarsi carne da mangiare”.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica PlosOne di Ottobre.

Musiba sostiene che mangiare carne può aver fornito le proteine necessarie per far crescere il nostro cervello: questo sarebbe da considerarsi quindi una spinta evolutiva.

“Mangiare carne è associato con lo sviluppo del cervello”, afferma. “Il cervello è un organo di grandi dimensioni e richiede un sacco di energia. Stiamo cominciando a porre maggiore attenzione sul rapporto tra l’espansione del cervello e una dieta ricca di proteine”.

Gli esseri umani sono una delle poche specie sopravvissute con un cervello grande in rapporto alle dimensioni del corpo. Gli scimpanzé, i nostri parenti più stretti, mangiano poca carne  e hanno una capacità molto più piccola del cervello degli esseri umani.

“Questo ci separa dai nostri lontani cugini”, sostiene Musiba. “La domanda è allora: che cosa ha innescato il nostro consumo di carne? Era l’ambiente che cambiava? O era l’espansione dello stesso cervello a richiederlo? Al momento, non sappiamo rispondere a queste domande”.

fonte: http://www.scienze-naturali.it/ricerca-scienza/mangiare-carne-puo-aver-aiutato-gli-ominidi-a-diventare-umani

Anche per Claude Lévi-Strauss la cottura della carne e il controllo del fuoco hanno dato un forte impulso all’emersione dell’umano dagli ominidi. Il cibo carneo da sempre è legato allo status sociale, il suo valore simbolico va ben oltre la sua identificazione più materiale e funzionalista. In altre parole, cibarsi di carne animale, secondo gli antropologi, rappresenta la capacità di agire sulla natura come sulla e nella società (Lévi-Strauss, 1964). Per l’antropologo Nick Fiddes (1991) chi gestisce e spartisce il cibo per eccellenza – la carne degli animali dominati e soggiogati – domina di fatto la società intera. Non è per niente un caso quindi che gli Usa siano la nazione più carnivora del pianeta e rappresentano ed esportano un modello alimentare e sociale che è il più aggressivo e dominante di tutta la storia recente. E noi europei seguiamo al secondo posto. Non è un caso – sempre secondo Fiddes – che la cultura di cui facciamo parte

“ha sempre rappresentato il proprio ambiente come una minaccia da soggiogare, una selvaticità da addomesticare, una risorsa da utilizzare, un oggetto privo di diritti” (Fiddes 1991: 45).

Secondo l’antropologa italiana Annamaria Rivera, inoltre,

“la diffusione del consumo di carne, insieme alla separazione fra i luoghi dell’allevamento macellazione degli animali e i luoghi della vendita della carne rendono possibile la rimozione simbolica e morale delle condizioni di produzione di quella specialissima merce che è il corpo degli animali” (Rivera 2000: 59).

La reificazione degli animali rappresenta pertanto il metodo mediante il quale le grandi industrie impongono i loro prodotti sul mercato globale, sconvolgendo gli equilibri sociali e ambientali di interi continenti. Prosegue così la Rivera:

“Una tale deanimalizzazione dell’animale, inscritta nel contesto di una produzione industriale serializzata, massificata, automatizzata, riesce a evocare […] la disumanizzazione che fu alla base della costruzione di altri universi concentrazionari volti allo sterminio: se abshlachten («macellare») era il verbo usato dagli esecutori nazisti per dire il massacro dei prigionieri nei lager, programmato e attuato secondo rigorosa logica industriale, allevare e macellare animali oggi si dice «produrre della carne»” (Rivera 2000: 60).

Da un lato assistiamo ad una reificazione simbolica dell’animale, dall’altro gli studiosi si scervellano su quanto importante sia la carne per l’evoluzione della specie. Eppure, sebbene ai margini, ci sono tutta una serie di studiose e studiosi che più che focalizzarsi sull’importanza della carne, stanno ponendo la loro attenzione a come interagiscono i neonati e a quanto, nel processo di ominazione, abbiano contato le interazioni tra donne che si prendevano cura di bambini via via più incompleti alla nascita e i cui cervelli divenivano sempre più plastici e adattabili.

Insomma, mi rendo conto che l’argomento è complesso e difficilmente riducibile entro lo spazio di un articolo. Per esemplificare drasticamente, quello che mi premeva comunicare è che, se è vero che occhi e mani sono le interfacce, le  porte di ingresso e uscita attraverso le quali il nostro cervello si connette con la realtà esterna e genera mente, c’è sempre un’azione nella percezione, attraverso la quale la nostra mente integra le informazioni esterne con quelle interne, manipolandole, selezionandole per importanza, e generando uno “spazio immaginato”. In pratica, siamo in grado, almeno in potenza, di dimostrare tutto e il contrario di tutto e chi detiene il potere e il sapere lo sa.

Lo zoccolo duro contro il quale mi scontro sempre più, procedendo nello studio delle cose che più mi premono, è che la visione antropocentrata che ha informato il modo in cui gli esseri umani pensano e valutano la realtà, e che sicuramente, ha basi genetiche, come dimostrano gli studi più recenti di neurofisiologia, ha fissato dei criteri di relazione con l’alterità (l’ambiente, gli animali, gli esseri umani di sesso diverso, gli stranieri…) di tipo verticistico e gerarchico, ormai del tutto introiettati, cioè divenuti costitutivi dell’essere umano. Noi attualmente sappiamo, e quindi possiamo porci nei confronti dell’alterità nei due soli modi che la cultura umanistica ci ha trasmesso, entrambi condizionati dall’idea gerarchica che informa il nostro approccio conoscitivo al mondo: l’uno è paternalistico (es. amiamo i poveri animali indifesi), l’altro è cinico (es. usiamo gli animali). Nella gabbia umanistica non è prevista l’idea di una soggettività animale, poiché le relazioni cognitive cui ricorriamo sono sempre di tipo unidirezionale: io -> altro. Lo stesso tipo di costrutto bipolare a senso unico caratterizza il razzismo, il sessismo, il colonialismo, l’adultismo.

Ma vorrei spingermi oltre, affermando che tale tipo di struttura discorsiva, che si potrebbe rappresentare con l’immagine della piramide, e che di fatto, genera violenza, viene riprodotta e consolidata anche dal femminismo, dall’antispecismo, dal movimento per la comunicazione non-violenta, etc etc , insomma da tutti quei movimenti culturali che vorrebbero contrapporsi al sistema del dominio. In definitiva, il nemico con cui confrontarsi sono le illusioni umanistiche che hanno ingabbiato la coscienza e il sapere umani. L’umanesimo, col suo portato di scienza-dogmatica e religione-scientista, è il sostrato su cui si ergono le maestose architetture che reggono la società oppressiva civilizzata.

Per essere veramente efficace e rivoluzionaria, ogni forma di ecologismo e decrescita felice dovrebbe assumere in questa fase storica il compito difficile, ma indispensabile, di abbattere le barriere che impediscono la possibilità di pensare un mondo diverso. Scollare gli ingranaggi del sistema di dominio è la condizione sine qua non perché altre, nuove, diverse idee possano sorgere, attecchire e diffondersi liberamente. Capire quali siano tali ingranaggi e adoperarsi perché saltino è, in questa fase storica, il vero e unico compito del movimento della decrescita felice. Nessun seme può attecchire su un terreno inquinato. Creare il terreno fertile perché nuove forme di relazioni possano nascere ed esprimersi tra gli umani gli animali e l’ambiente, comporta che il terreno venga prima ripulito dagli agenti inquinanti (le strutture mentali) e predisporlo per la semina. Spetterà forse ad altri seminare, ma mi è chiaro ormai che il nostro compito è quello di pulire il terreno da ideologie tossiche. Compito infausto, ma indispensabile.

Bibliografia delle opere citate

Fiddes Nick, 1991, Meat, a Natural Symbol, Routledge, London

Levi-Strauss Claude 1964, Il crudo e il cotto, il Saggiatore, Parigi

Manzoni Annamaria, 2006, Noi abbiamo un sogno, Le Ragioni e le Emozioni del Rispetto per gli Animali, Ed. Bompiani

Rivera Annamaria, 2000, Homo sapiens e mucca pazza:antropologia del rapporto con il mondo animale, Dedalo, Chicago

Fonti sitografiche:

Aspetti zooantropologici del mangiare animali,  Alessandro Arrigoni

Il tempo della carne, Noemi Callea

Sognando la Gilania

Gilania è un termine coniato dall’antropologa Riane Eisler che indica il modello organizzativo di società “mutuale” e non “dominatore” dove nessuna delle due metà dell’umanità è collocata ad un rango superiore all’altra in modo permanente, ma entrambi i sessi tendono ad essere stimati uguali. Nel modello di società gilanico la differenza di genere non implica necessariamente superiorità o inferiorità, anzi, la società è diversificata ma non gerarchizzata. Il riconoscimento e il rispetto dell’autonomia, della diversità e dell’uguaglianza di status tra i due sessi sono iscritti nella stessa parola “gilania”.

Proprio perché perfino la lingua riflette la cancellazione delle donne dalla storia, e in qualche modo il termine “matriarcato” come opposto di “patriarcato” riflette specularmente un sistema gerarchico,  duale e lineare, tipico del pensiero dominatore maschile col quale è stata scritta la storia fino a noi conosciuta, Riane Eisler ha coniato un neologismo dall’unione di tre parole:  gyné, donna in greco, link, verbo  inglese che significa unire, ma anche lyo, verbo greco che vuol dire sciogliere e anér, uomo in greco. Continua a leggere