Lavorando d’immaginazione, a volte io scendo giù, nell’inconscio, e nel luogo in cui vado trovo le parole per poi riemergere. Le parole sono dei tesori, i pezzi di storie sono tesori, die Stücke von Büchern, e i miscugli di poesia, e le altre lingue, e poi ci sono pezzi di greco là sotto, di latino, e anche di slogan pubblicitari, le scene di film. Tutto questo si dipana dentro il mio mondo immaginifico, in questa notte in cui sono sola coi miei pensieri, e nel mio profondo diventa Uno con me. Il momento in cui si vive l’unione, intesa come sensazione di superamento della separazione e ricongiungimento, è un momento mistico di estremo piacere, che noi donne abbiamo il privilegio di sperimentare nella maternità ma che è lo stesso che io provo ad esempio attraverso la creazione linguistica o la musica.
Nel processo di accesso alla memoria ed alla scrittura esiste infatti una specie di piacere della ricerca della parola, un piacere quasi fisico del suono materiale, oltre che della connessione mentale ed ho compreso che l’immaginazione e i sogni sono della responsabilità (citando il verso di Yeats, “In dreams begin responsabilities”).
In questo anarchico flusso di immagini, di frasi, di ricordi, una pagina di Vangelo mi salta agli occhi. Le due sorelle di Lazzaro: Maria, che siede ai piedi di Gesù, parla e ascolta, e Marta, fa la casalinga e serve l’Ospite. Per me questa è una immagine metaforica del modo in cui ci si prende cura della famiglia e dei figli trovando anche il tempo per se stesse, per pensare, sognare e scrivere.
Luca 10,38-42
“Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella di nome Maria la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua Parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte buona, che non le sarà tolta”.
E così può esserci una Marta-Maria? Si può superare la divisione duale “realizzazione personaledovere”? O noi donne siamo irrimediabilmente condannate alla schizofrenia? Si delinea nella mia memoria un percorso che passa attraverso la mia formazione sui gender studies, capace di offrirmi un modo di riflettere sulla maternità non soltanto in termini di unione biologica tra due creature ma in termini anche di ruolo culturale e che è parte di un lavoro di ri-lettura e scrittura vissuto come un corpo a corpo con dei testi che interrogo e mi interrogano. L’esperienza della maternità mi ha insegnato infatti che la scissione della propria personalità e la proiezione sono più un problema degli uomini e non delle donne, o, detto in termini diversi, appartiene più al lato maschile della nostra personalità che non al lato femminile, maschi o femmine che siamo! Da sempre l’uomo riduce la donna a due figure tra loro non conciliabili, la madre e l’amante. E lo fa per un motivo preciso, perché è il maschio ad avere dentro di sé due identità lontane dall’essere sintetizzate: il padre, cioè colui che si assume la responsabilità dell’educazione dei propri figli e il maschio donatore di sperma che non li riconosce e non se ne interessa. Se l’uomo, lungo tutta la storia, ha assegnato alla donna due personalità scisse lo ha fatto perché non è mai riuscito a unificare le due identità maschili corrispondenti. Sappiamo dalla psicologia che la proiezione è un meccanismo di difesa in cui si investe l’altro (persona, animale, oggetto) con proprie ansie o conflitti. Proiettando sulla sua compagna questa sua difficoltà, l’uomo dichiara implicitamente di avere problemi di individuazione e di non sapere accedere all’unità. Per questo tutte le mie energie in questo momento sono concentrate in un progetto, forse troppo ambizioso, che vuole essere un ponte gettato verso il maschile nel quale provare a superare la contrapposizione fra i due generi dell’umanità.